Magia

Forza magico Hellas!

Paruca

«Dagliela!» grida la ragazza dietro di me. «Passagliela!» È in piedi, sta gridando. «Dagliela BENE!»
In campo Martino Melis alza la testa. Ma non la può sentire. Lei è solo una voce. Migliaia di altre stanno incitando: «Su Verona, su Verona, dai, dai!» Melis indugia ancora.
«Ma su, dagliela!» piange la ragazza. «Dagliela bene!»
Troppo tardi Melis si avvede del varco e fa il passaggio, che risulta troppo lungo. La ragazza si accascia delusa. Un attimo dopo ricomincia: «Buttalo giù! Butta giù quel bastardo, dio povero!» Sta soffrendo. Mazzola non la sente. «O mongolo,» risuona il familiare appellativo da qualche fila ancor più indietro. «O fenomeno, torna al manicomio!»
Sul Muro, con l’avvicinarsi della partita di domenica, le sollecitazioni corrono grevi e rapide:
«ODDO, MISERABILE MERCENARIO, FACCI VEDERE LE PALLE OGGI!»
«PEROTTI, MERDA! BASTA PAREGGI E SCONFITTE FALLI GIOCARE PER VINCERE, DIO BOIA, E NON FARE ENTRARE CASSETTI. È UN PARALITICO.»
Perché la gente scrive dei messaggi a destinatari che notoriamente non li leggeranno mai? Perché i tifosi inveiscono contro i giocatori sapendo che non possono sentirli?
– E tira, tira, tira, porca miseria! – La ragazza si è rialzata in piedi. – Tira adesso! – Ma neanche per un attimo s’immagina che Bonazzoli possa sentirla. Sa che il suo mondo è decisamente separato. Ma allora qui cosa sta succedendo?
Il sabato prima di una partita sull’Arena c’è sempre una pubblicità a tutta pagina. È sormontata da una larga fascetta grigia con l’incitamento:

FORZA GIALLOBLÙ FORZA GIALLOBLÙ

Appena sotto ci sono i nomi delle squadre:

H.VERONA NAPOLI

Poi, a centro pagina, sono disegnati l’uno di fianco all’altro due grossi campi di calcio, uno per ciascuna squadra che giocherà domani, con i nomi dei calciatori che presumibilmente andranno in campo. Qui di seguito, per fare un esempio, vediamo cosa c’è scritto oggi sul campo di sinistra:

H. VERONA (4-4-2)

Seric Melis

Apolloni Italiano Gilardino

Ferron

Laursen G. Colucci Bonazzoli

Oddo Salvetti

Ma adesso viene il fatto più curioso. Proprio in mezzo alla pagina, quindi schiacciato tra i due campi con rispettive squadre, c’è appena appena lo spazio sufficiente a una pubblicità verticale, allungata, che in questo modo si trova al posto d’onore disponendosi al punto focale di tutta la grafica. C’è scritto:

CENTRO

Z E U S

Giuseppe Strano:

Tarocchi, Astrologo, Spiritista

Specialista in problemi di cuore

Consultatelo per:

Amore, Lavoro e ogni Forma Negativa

Piazzato lì fra le due squadre, nell’enigma del loro imminente conflitto, abbiamo un mago, Giuseppe Strano. Il nome più appropriato, il posto giusto. Secondo l’antropologo Evans-Pritchard, «la magia esiste come spiegazione primitiva del mondo, e continua a fiorire ovunque la scienza non riesca a dare rassicurazioni». Certamente non avrebbe potuto esserci nessuna rassicurante spiegazione scientifica in quel freddo pomeriggio del 14 gennaio allorché, su un campo zuppo di pioggia, senza aver fatto nulla per meritarlo, a un quarto d’ora dalla fine il Napoli segnò portandosi sull’uno a zero. Non dubito che molti al Bentegodi nell’assistere a questa ingiustizia si convinsero che il Verona fosse vittima di qualche forma negativa. O malocchio.
«Come storico della civiltà» scriveva nel 1923 lo studioso tedesco Aby Warburg, «quello che mi interessava era come, nel bel mezzo di un paese che aveva sviluppato la sua cultura tecnica come un’eccezionale arma di precisione nelle mani dell’uomo razionale, sopravvivesse tuttavia una piccola enclave di pagani primitivi i quali, pur affrontando la lotta per la sopravvivenza in assoluto realismo quando si trattava della loro caccia e della loro agricoltura, tuttavia continuavano a praticare con immutata fede riti magici che noi tendiamo a considerare con spregio quali segni di totale arretratezza.»
Pagani primitivi? Warburg si riferiva agli indiani Pueblos del Nuovo Messico, con la loro consuetudine di invocare la pioggia da un cielo che non poteva sentirli o la fertilità da una terra del tutto priva di orecchi; ma il brano si potrebbe attagliare altrettanto bene alle Brigate Gialloblù, o di qualunque tifoso che prega qualcuno che non può sentirlo. Warburg continua parlando della magia come di uno stadio intermedio fra totemismo e tecnologia: cioè di qualcosa che comporta un forte desiderio di manipolazione degli eventi mediante un procedimento causa-effetto, ma senza avere sviluppato i mezzi tecnologici per conseguirla. Per richiamare le nubi si esegue una certa danza. Prima della partita indossiamo per quarantotto ore la sciarpa gialloblù nella vaga speranza che dimostri valore propiziatorio.
«Tale coesistenza tra magia fantastica e razionale utilitarismo a noi appare un simbolo di scissione,» riflette Warburg. «Ma per un indiano o un tifoso di calcio in questo non c’è nulla di schizoide. Al contrario: corrisponde all’esperienza liberatoria di un’illimitata correlazione possibile fra l’uomo e il mondo che lo circonda.»
– Dagliela bene! – strilla per l’ennesima volta la ragazza. Questa volta Melis fa subito un perfetto passaggio filtrante a Mutu. Lei batte le mani. – Ecco… Ecco, guarda lì, un caso di telepatia… mi ha sentita!
– Vai, magico Hellas! – È il grido preferito di Pietro.
L’antropologo Sir Edward Burnett Tyler, dopo aver convenuto che la magia è un tentativo di manipolare il mondo, si è dato ad affrontare la spinosa questione. «Perché colui che crede nella magia vi si attiene quando è chiaro che essa non funziona?», cioè quando la sciarpa avvolta intorno al collo per due giorni è seguita da una batosta così umiliante da far venire voglia di impiccartici? Quando preghi Perotti di dimostrare un minimo di senno e lui, nemmeno morto.
La conclusione a cui approda l’antropologo è che colui che pratica la magia giustifica il proprio fallimento postulando il maggiore potere di qualche magia avversa: abbiamo fatto tutti i nostri incantesimi, ma qualcun altro ne ha lanciato uno più forte, una forma negativa. Si capisce la logica di ciò, ma a proposito di quella partita del 14 gennaio, bisogna aggiungere che anche se i napoletani sono tifosi caldi e notoriamente creduli nel malocchio, tuttavia al Bentegodi erano incommensurabilmente soverchiati nel numero. Come poteva il loro influsso essere superiore al nostro?
L’antropologo Sir Alfred Radcliffe Brown aveva una diversa impostazione riguardo a questa fedeltà alla futile formula. Lui sentiva che la funzione sociale della magia è più importante della sua efficacia, che essa deve «sottolineare l’importanza per il gruppo dell’evento desiderato e protetto». Scrivendo messaggi minacciosi a Pastorello o pregando Adailton di tirare, manifestiamo l’importanza assolutamente fondamentale per tutti noi del fatto che l’Hellas vinca.
Per questo verso, approfondiva Radcliffe-Brown, la magia garantisce un modo di «ritualizzare l’ottimismo». Ripeti insistentemente quello che desideri di più, e così indirizzi te stesso e gli altri a un futuro più felice. Prima di ogni partita dell’Hellas qualcuno che si firma Zeno (il santo patrono di Verona) scrive sul Muro il pronostico della giornata, che è sempre a nostro favore. «Verona 4, Napoli 1: gol di Mutu, Bonazzoli e Melis. Tutti nel primo tempo. Rigori per gli sporchi terroni all’inizio della ripresa. Gol finale negli ultimi secondi del mitico Gilardino.»
Ma a dieci minuti dalla fine di questo sciagurato pomeriggio del 14 gennaio, era ancora uno a zero per il Napoli. Da quasi trenta metri – al primo tiro napoletano degno di questo nome in tutta la partita – Bellucci aveva impresso al pallone una traiettoria curva, secca e veloce mandandolo a spegnersi nel sette sinistro della porta del Verona. Conclusione perfetta. Nessuna magia di Ferron avrebbe potuto opporvisi.
Nei momenti di disperazione come questo, la cosa che mi chiedo sempre è: perché la gente investe questo enorme desiderio di controllo, di magia causa-effetto, in un ambito in cui sa di non averlo affatto, quel controllo? Dopo avere passato una settimana in banca, a scuola, in fabbrica, perché non scelgo un passatempo da cui potrò ricevere il piacere di una rassicurazione garantita? I giochi al computer, per esempio. O imbottigliare il vino.
O ancora: avendo scelto un passatempo sul quale non abbiamo alcun controllo, perché non ci mettiamo passivamente a sedere e ne traiamo affanno o godimento? Perché cerchiamo di influenzare gli avvenimenti? Rieccomi qua in piedi, a gridare: – Cassetti, cristiddio, non passare all’indietro. Cazzo, merda, Cassetti, vai all’attacco! – Può essere che in realtà desideriamo una tale esibizione di impotenza? Forse il teatro dello stadio ci permette di vivere intensamente la nostra più intima intuizione: cioè che alla fine, e in tutte le cose importanti della nostra vita – il nostro luogo di origine, la nostra identità, le nostre passioni, i figli, le malattie e l’avanzare dell’età – non abbiamo mai esercitato alcun controllo.
Sferzata ma non vinta, la curva si scatena con amara determinazione. La regola è cantare in faccia a tutto. «Tu sei il Verona, il mio Verona!» Tento di unirmi al coro ma non riesco. Sto male. Il tuo libro, mi dico, sarà il libro su una retrocessione. Questa è la malinconica verità. Forse scrivere su una cosa porta sfiga alla cosa di cui scrivi. Tra pochi minuti, il Verona sarà terzultimo in classifica.
A sostegno dell’idea di funzionalità sociale della magia proposta
da Radcliffe-Brown, si pongono ulteriori studi sugli Indiani
d’America. «La tribù Zuni, trovando la propria cultura
sottoposta alla pressione degli esploratori spagnoli e dei missionari
francescani affinché ripudiasse le costumanze indigene,
tracciava in termini figurativi un cerchio magico attorno alle
sue credenze e cerimonie più esclusive, in particolare le danze
con maschere».
Maschere! Quel pomeriggio, entrando al Bentegodi, abbiamo scoperto che le Brigate non avevano portato le bandiere o le stelle filanti come al solito, ma su ogni seggiolino della curva c’era una mascherina bianca di quelle che si indossano i ciclisti americani in mezzo al traffico. Lo scopo era proteggersi dal fetore di quegli orribili napoletani. C’è una canzone locale che dice:

Senti che puzza,
scappano anche i cani
sono arrivati i napoletani!

Così quando le squadre entrano nello stadio trovano diecimila persone in mascherina bianca che cantano: «Siamo i tifosi dell’Hellas e abbiamo un sogno nel cuore, bruciare il meridione, bruciare il meridione».
Fino a un quarto d’ora dalla fine, sembrava che almeno in ambito calcistico il sogno si potesse avverare. Per tutto il primo tempo e per buona parte del secondo l’Hellas aveva attaccato e il Napoli si era difeso. Nella porta napoletana Mancini si era prodotto in due o tre belle parate. Cinque minuti dopo il gol del Napoli il Verona aveva guadagnato un angolo. Martin Laursen era saltato per colpire un pallone alto sul secondo palo e l’aveva sbattuto… contro la traversa. Ecco, ho pensato. Forze negative.
– Andiamo in B, – ha mormorato Pietro.
– Siamo già in B, – lo ha corretto il pessimista che si siede davanti a me.
In passato, quando sentivo gli altri dire che temevano la retrocessione, pensavo che la loro paura fosse una semplice questione di prestigio calcistico, di assistere a partite di livello più o meno alto. Solo recentemente mi sono reso conto che la vera posta in gioco è il pensiero tabù: e se la nostra comunità si dissolvesse? Provate a immaginare: il club che scende prima in Serie B, poi in C; i tifosi dell’Hellas diventano sempre meno; proliferano quelli di Juve, Milan e Inter. Nel momento in cui cantano «Quando saremo in serie C eventualmente noi saremo sempre qui!» cosa stanno tentando di fare le Brigate, se non esorcizzare l’orrido sospetto che forse invece non ci saranno affatto? Che le Brigate saranno scomparse, inghiottite nel mondo dei passatempi moderni dove il calcio non significherà niente di più che un pomeriggio passato davanti alla pay. Che le Brigate saranno scomparse, inghiottite
nel mondo dei passatempi moderni dove il calcio non significherà niente di più che un pomeriggio passato a guardare la pay-Tv. Se non è una pressione culturale questa, allora che cos’è?
Minacciati, gli Zuni tracciavano un cerchio magico intorno a sé. Spesso ho pensato al Bentegodi come a un cerchio magico. I tifosi avversari sono ammessi in un unico spicchio, e unicamente allo scopo di essere infine espulsi grazie alla vittoria dell’Hellas. Un esorcismo rituale. Ma oggi neanche le nostre maschere antigas ci possono proteggere dal lezzo atroce della sconfitta. A soli dieci minuti alla fine, mentre lo stadio è nella morsa di una tensione quasi insopportabile, finalmente il «ragioniere» Perotti si decide a rischiare. Sostituisce Melis con un terzo attaccante, Adailton. – Vai, Ada! – grida Pietro al ragazzo che non lo può sentire. Alla nostra destra tre uomini anziani si alzano e si incamminano verso le scale. Hanno perso la fede.
La partita arrancava verso la sua conclusione. I giocatori del Napoli, ovviamente, perdevano tempo ruzzolando per terra fra guaiti di dolore finto, alzando le mani per chiamare il medico della squadra, impiegandoci secoli a piazzare il pallone per un calcio da fermo. E a questo punto d’improvviso si è alzato un ruggito di sofferenza che sembrava completamente staccato da quello che accadeva sul campo. Subito ho alzato gli occhi verso il tabellone elettronico sopra la Curva Nord dove il serpente luminoso stava dando i risultati delle altre partite. Come la settimana scorsa a Lecce, le notizie fin qui erano tutte pessime. Vinceva il Brescia, vinceva la Reggina. Ma adesso, colmo dei colmi, era arrivato l’aggiornamento dei punteggi di B: una squadra di nome Chievo Verona aveva pareggiato a Salerno. La curva ha rantolato all’unisono. La iattura era troppa. E così, proprio mentre noi arriviamo a questo momento decisivo e disperato della stagione – i cinque minuti finali contro il Napoli – temo che dovrò interrompere il mio racconto per parlare di una minaccia ancor più grave ai danni della comunità Hellas: sembra che il Chievo Verona conquisterà la promozione in A.
Confesso che da settimane continuavo a rinviare questa parte della storia. Avrei dovuto parlarne molto tempo fa, forse fin dall’inizio del libro. Per esempio, avrei potuto dire: «In realtà la città di Verona ha due squadre di calcio, una in Serie A e l’altra, incredibile dictu!, in B invece che in C, o in D, dove sarebbe il suo posto».
Così avrei ottenuto il giusto effetto. Vi avrei preparato. Ma la verità è che contavo di finire di raccontarvi la mia storia senza nemmeno nominare il Chievo. Il Chievo è irrilevante, ricordo di aver pensato, nella prospettiva di questo libro che ho deciso di scrivere sulla gloriosa squadra di Serie A Hellas Verona. Il Chievo è un’appendice periferica, tranquilla, un’accozzaglia di nullità parrocchiali. Non devi rubare tempo ai lettori con il Chievo.
Decisione affrettata. Da qualche settimana mi rendo conto che il problema sta strisciando su di me. Ormai da tempo ho potuto constatare, non senza mestizia, che quando scrivi un libro in forma di diario, mica puoi sapere dall’inizio che cosa infine risulterà di mostruosa importanza. Eccoci qui quasi a metà stagione: e il Chievo Verona si trova nientemeno che in testa alla classifica di B con un paio di punti di vantaggio. Mentre l’Hellas scivola nell’abisso, il Chievo ascende come una meteora. Qualche parola bisogna dirla.
Chievo è un piccolo sobborgo di Verona detto anche «la Diga» perché sorge vicino alla diga che regola il corso dell’Adige attraverso la città. Fino agli sessanta la squadra di calcio locale è stata poco più che una compagine di parrocchia come tante. Poi, lentamente ma con sicurezza, pur non potendo vantare che una sparuta coorte di tifosi, hanno compiuto la loro scalata. Nel 1994 sono approdati infine in Serie B venendo quindi ammessi al Bentegodi dove giocano a settimane alterne con l’Hellas. Se uno va a veder giocare i ragazzi della diga trova le gradinate deserte, costellate qua e là di qualche vecchietto con picnic di polenta e cotechino.
Beh, è già stato abbastanza brutto quando l’Hellas è stato retrocesso, e abbiamo dovuto giocare contro il Chievo in B. Sarebbe ancora peggio dar loro il benvenuto in Serie A. Ma alla fine, il problema non è questo. La paura che ormai si taglia col coltello è che il Chievo sia promosso in Serie A mentre l’Hellas Verona retrocede in B. E questa paura si alimenta dell’inquietante certezza che il mondo in senso più ampio, il grande vasto mondo della televisione e della correttezza politica, trova nel Chievo Verona una realtà molto più appetibile dell’Hellas Verona. Il Chievo schiera un paio di giocatori di colore. I tifosi del Chievo non si scatenano in inni razzisti. Non attaccano mai la polizia come stanno per fare gli ultrà Hellas secondo rituale non appena l’arbitro avrà fischiato il termine di questa penosa partita contro il Napoli. I tifosi del Chievo sono agevoli da tenere a bada, facili da disperdere; e raramente importunano le autorità seguendo la squadra in trasferta.
Se il Chievo sale in A e l’Hellas scende in B, mi domando mentre filano via gli ultimi minuti di Verona-Napoli, potrebbe essere davvero l’inizio della fine per la comunità Hellas? Temo di sì. E non facciamoci ingannare dalle apparenze accativanti! Sicuramente molti lettori staranno pensando: quanto è pittoresco vedere una parrocchietta che porta i suoi ragazzi in Serie A! Può darsi. Ma la verità non è fatta solo di aspetti pittoreschi. Come chiunque altro, anche i dirigenti del Chievo devono pagare gli stipendi ai loro giocatori. E come possono farlo senza tifosi? Grazie ai soldi pagati dai canali televisivi per i diritti di mostrare l’anticipo di serie B di venerdì e il posticipo di lunedì. Il Chievo è pari pari un sottoprodotto del moderno calcio televisivo, la prova provata della non indispensabilità dei tifosi in carne e ossa. Per chiunque arda dalla voglia di mettere una croce sopra le orde turbolente che impestano gli stadi, la promozione del Chievo e la retrocessione dell’Hellas Verona sarebbero due eventi sommamente graditi.
Oggi, 14 gennaio, era parso che il Chievo avesse finalmente il fatto suo. le stavano buscando a Salerno. La notizia del gol della Salernitana era stata salutata da un grande applauso. Magari, almanaccava la gente, una sconfitta avrebbe fatto scoppiare il Chievo come una bolla di sapone. Ma adesso non facciamo in tempo a passare in svantaggio che arriva la novità che i nostri cuginastri hanno pareggiato! Le gradinate del Bentegodi non sono mai state così gonfie di tristezza.
Poi qualcuno ha segnato.
Inizialmente è stato difficile stabilire chi fosse o come fosse successo. Il Napoli aveva sostituito il suo unico attaccante, Bellucci, intasando l’area di giocatori. Sembrava facile. Dovevano resistere solo pochi minuti. Ma almeno oggi il Verona stava sputando l’anima. E finalmente – in mischia, ancora prima che la ragazza dietro di me avesse il tempo di gridargli «Tira!» – finalmente qualcuno ha cacciato la fottuta palla in rete proprio sotto la Curva.
Sul tabellone è apparso il nome CASSETTI. Nel mezzo del tripudio non ci potevo credere. Io, che insulto sempre Perotti quando vedo che ha mandato in campo Cassetti. Ogni sabato l’Arena riporta la formazione e Cassetti non c’è – sembra impossibile che siamo ridotti ad avere bisogno di Cassetti – e poi ogni domenica lo troviamo sul campo, mansueto, crinito, adolescente e inetto come non mai. Ho gridato a più non posso: – Cassetti, ti perdono. Ti perdono tutta la tua totale inutilità per questo gol! – Anche mio figlio stava gridando: – Grazie, Cassetti, grazie! – Poi il tabellone ha corretto. MUTU. Mi sono rasserenato.
I novanta regolamentari erano finiti. Il quarto uomo ha alzato il pannello luminoso annunciando il recupero: tre minuti. Ma al Verona il pareggio non poteva bastare. Non contro il Napoli. «Vai Verona, vai!» gridava la folla. E quando tutta la Curva urla a una sola voce, allora si sprigiona un’autentica pressione mentale. Qui non si parla più di isolate imprecazioni perse nella tempesta, della voce che nessuno sente. Adesso è una marea di rumore che monta sempre più. E il Napoli stava crollando. Gli erano saltati i nervi. La mia opinione sui tifosi è cambiata un’altra volta. I tifosi sono fondamentali! Se il Chievo avesse una tifoseria, sarebbe in Champions League! «Su Verona su!!!!» L’incoraggiamento era di un’assordante insistenza. Fino a quando, da sinistra, Mutu ha alzato la palla verso Bonazzoli al limite dell’area del portiere. Stretto tra due difensori, il ragazzone si è girato col corpo per deviare la palla di petto verso l’irrompere dello smarcato Adailton. Il brasiliano non ha dovuto neanche tirare forte. Era così semplice. Rete!
Non ricordo nessun altro momento di altrettanto totale promiscuità in gradinata. La gente stava ruzzolando ovunque in enormi abbracci collettivi. Poi, non appena si sono rimessi in piedi, le Brigate hanno cominciato a cantare. Tutti i miti e le favole ci dicono che quello che deve fare l’eroe dopo avere ammazzato un mostro è rubargli suoi magici poteri, la testa della Medusa, l’egida e così via. Così, dopo essersi protetti inizialmente con le maschere antigas, ora i tifosi del Verona hanno rubato quello per cui i napoletani vanno più famosi, la loro tradizione canora, intonando: «Ohi vita, ohi vita mia.» Diecimila persone. «Ohi core, ’e chistu core.». «Si stat’ o’ primmo ammore, O’ primmo e l’urdemo sarraje pe’mme».
Questa è l’Italia, il Nord che canta il Sud. Giuseppe Colucci, che è nato a sud di Napoli, era talmente eccitato che ha lanciato in aria la maglia ed è stato prontamente espulso. Pochi secondi dopo hanno sbattuto fuori anche Mutu per avere reagito con un pugno al calcione di un difensore del Napoli. Entrambi non giocheranno la prossima partita. Ma che importa? La folla è uscita dal Bentegodi in estasi. Almeno oggi, la magia aveva funzionato. In extremis. L’Hellas esiste.

14a giornata

Brescia – Perugia 1-0
Fiorentina – Milan 4-0
Inter – Parma 1-1
Juventus – Bologna 1-0
Lecce – Vicenza 3-1
Reggina – Atalanta 1-0
Roma – Bari 1-1
Udinese – Lazio 3-4
Verona – Napoli 2-1

Classifica

Roma 33
Juventus 27
Lazio 24
Fiorentina 24
Atalanta 22
Milan 20
Bologna 20
Udinese 19
Perugia 19
Parma 19
Lecce 19
Inter 18
Verona 15
Vicenza 15
Napoli 14
Reggina 13
Brescia 12
Bari 9