Passaggio in India per vedersi dentro
Il Sole 24 Ore – il 23 gennaio 2011
Roberto Bertinetti
Appunti disordinati, fitte note a margine a testi letti più volte, schede traboccanti di frasi spesso critptiche. È davvero arduo ricostruire dopo la sua morte la ricerca che ha occupato gli ultimi anni di Albert James, discendente da una famiglia britannica di illustri scienziati e antropologo di fama internazionale «con la vocazione dei sentieri ardui», trasferitosi a Delhi perché, rivela Tim Parks (scrittore e collaboratore di queste pagine) in apertura di Sogni di mare e di fiumi, giudica il l’India «il punto di massimo attrito tra tradizione e moderno, la linea di fusione e di confluenza». L’obiettivo dell’indagine di Albert, spiega la moglie Helen, era assai ambizioso: «Voleva stabilire un modello cibernetico che ci consentisse di predire come i diversi sistemi culturali avrebbero assorbito l’influsso delle idee occidentali trasformandole». Un cancro alla prostata non gli ha però permesso di far uscire il progetto dalla fase dell’abbozzo. Ma questo disegno, al centro del tredicesimo romanzo del narratore inglese, da tempo residente in Italia, ispiratosi per il protagonista a Gregory Bateson, affascina i personaggi convenuti a Delhi dopo la sua scomparsa: in particolare il figlio John, giovane e promettente ricercatore che in un laboratorio di Londra studia come battere la tubercolosi, e il giornalista statunitense Paul Roberts, deciso a strappare alla vedova il consenso per poter lavorare alla biografia dell’antropologo.
La sfuggente e tuttavia magnetica personalità di Albert James costituisce il detonatore capace di far esplodere le innumerevoli contraddizioni di chiunque desideri scoprirne i segreti, quasi la figura dello scienziato sia una sorta di specchio magico nel quale ciascuno riesca a individuare i tratti nascosti della propria autentica personalità. Se ne accorge in primo luogo John, obbligato a fare i conti con se stesso mentre si sforza di capire chi sia stato davvero quel genitore sempre lontano, con cui ha mantenuto solo scarsi e superficiali rapporti. Dello stesso fenomeno risulteranno vittime Paul Roberts, non più protetto dalla rassicurante routine che lo proteggeva nell’opulenta America, e persino Helen, medico «dalle energie mai men che illimitate» e con l’animo traboccante di slanci umanitari, colonna portante di una clinica per derelitti privi di assistenza pubblica, incapace di elaborare il lutto per un uomo senza dubbio amatissimo ma, scopriremo, di cui ha condiviso il quotidiano senza negarsi altri legami a dispetto dell’immagine dell’unione perfetta difesa a oltranza da entrambi.
Flagellata da violente tempeste di polvere o da una battente pioggia monsonica, piena di emarginati costretti a sopravvivere con poche rupie, sporca, violenta e maleodorante, Delhi costituisce il fondale perfetto per una cruda tragedia destinata a consumarsi esclusivamente tra gli uomini e le donne di provenienza occidentale. Il finale, almeno in parte all’apparenza felice, non deve trarre in inganno. Al lettore, infatti, Tim Parks ha chiarito per intero la spiacevole verità su ognuno dei protagonisti, svelandone i lati sgradevoli del carattere, le profonde insicurezze, le ipocrisie, i fallimenti. L’India costituisce, insomma, la cartina di tornasole capace di far emergere in maniera inequivoca e persino brutale le contraddizioni di chi vi arriva con l’intento di medicarne le ferite purulente e quindi scopre con terrore di dovere fronteggiare i propri fantasmi interiori. Nella miglior letteratura inglese questo tema è presente da circa un secolo grazie a E. M. Forster, a George Orwell e a molti altri narratori esperti nel descrivere gli effetti dell’incontro con “l’altro” di cui Tim Parks si mostra ottimo e convincente erede.
Mondadori, Milano pagg. 480|€ 20,50, traduzione di Giovanna Granato