Non così Giorgio. Affrontando il problema dei figli, prima della partita scoppiò in un pianto trattenuto, approfittando anche del frastuono della folla per non farsi sentire da Cesare, che in quella fredda, corroborante giornata d’inverno, stava lì a strappare il programma per farne aeroplanini di carta. Allo stesso tempo era innamorato di Raffaella. O così credeva. Dopodiché disse seriamente di avere un dovere nei propri confronti: vivere la vita fino in fondo. Rischiava di morire senza aver minimamente realizzato il suo potenziale di amore, senza aver vissuto per davvero. Non dissi che mi dava l’impressione di uno che vuole afferrare il dovere e trascinarlo urlante e recalcitrante in una direzione che non ha nessuna voglia di prendere. O come i dittatori, che pagano gli apologeti per legittimare un colpo di stato. Altrimenti, dove stava il conflitto? Michele disse che se perdevamo anche questa avrebbe strappato l’abbonamento e l’avrebbe buttato sul campo.
Il Verona sorprese tutti segnando per primo. La Roma, che aveva dalla sua un arbitraggio alquanto discutibile, andò in pareggio. Ma il calcio, simile in questo alla mente, è di una fluidità estrema. Come pensieri capricciosi, i giocatori si lanciano nelle direzioni più disparate, scoppiano improvvisi attriti, poi per una felice congiuntura le cose si ricompongono a disegno là dove sembrava – e questo nel Verona è endemico – che ci fosse solo confusione. Un passaggio, tre, quattro, ed ecco sotto gli occhi due triangoli perfetti. Il Verona aveva segnato di nuovo. Stremati e increduli, i ragazzi arginarono la pressione e tennero duro, non senza qualche eroica parata. Per la prima volta la folla balzò in piedi per un’ovazione fragorosa, mista ai cori di “Roma, Roma, vaffanculo!”. Toto De Vitis, idolo attempato e gran marcatore, venne a salutare la folla. Quanto urlavamo e lo adoravamo. Quanto amiamo i nostri giocatori quando vincono! Quando ci permettono di gridare insulti trionfanti all’avversario. Gli spalti erano un mare di bandiere, una cosa che mi piace da morire. Giorgio, che si era sgolato dal primo minuto, sorrideva serafico. “A ripensarci mi sa che non me ne andrò da casa” disse ridendo. A tal punto una bella vittoria è capace di rinfrancare. Ma la settimana dopo il Verona perse due a zero in trasferta contro il modesto, modestissimo Piacenza.
C’è chi ti viene a raccontare, tutto convinto, quanto sono intelligenti i suoi idoli calcistici. Ricordo di averlo sentito dire di Cantona, come pure di Platini e di Lineker. La verità invece è che adoriamo questi uomini per quello che sono capaci di fare per la nostra squadra e non per un’intelligenza fuori campo probabilmente inferiore persino a quella delle persone che più disprezziamo: mi riferisco ai politici, e qualche volta anche agli allenatori, il nostro senz’altro. Per Giorgio però, era inaccettabile che la sua giovane Raffaella non avesse un’intelligenza fuori dal comune. La persona più perspicace e acuta che avesse mai frequentato, disse. “Seni intelligentemente sfrontati?” mi informai. “Cosce perspicacemente calde?”. Mentre parlavamo, dagli altoparlanti tuonò il motivetto che accompagna, almeno una dozzina di volte prima di ogni incontro, una lunga pubblicità sul metodo di rinfoltimento per i capelli Cesare Ragazzi. Il grande schermo di fronte alla Curva Sud mostrava un ex-calvo, Cesare in persona, che ora poteva permettersi il lusso di abbracciare una ragazza nuda in uno scenario subacqueo che consentiva di apprezzare quanto possono essere lunghi e folti i capelli trapiantati. Grossolano sfruttamento della crisi di mezza età, era senz’altro azzeccatissimo per quel pubblico. Che ci vanno a fare gli uomini allo stadio se non a rispolverare la giovinezza? La cosa ha un che di onirico. E mentre Michele e Cesare reclamavano una Coca-Cola, mi venne fatto di pensare che più gli uomini rincoglioniscono, più cerebrali riescono a sembrare le giovani fanciulle. Giorgio scuoteva la testa, meditando sul programma della partita dove si lamentava il fatto che De Vitis fosse ormai troppo vecchio per reggere i novanta minuti. E aveva otto anni meno di noi due! Non gli feci notare che l’abbandonata Marina, col suo dottorato in farmacologia, era tutt’altro che fessa.