Estratto ‘Adulterio e altri diversivi’

Si trattava della partita contro l’Udinese. 23 dicembre. Dopo aver battuto la Roma, avevamo perso tutte le partite in trasferta e pareggiato due volte in casa, contro il Vicenza e la Sampdoria. Già le voci sulla retrocessione si sprecavano. Già il nostro allenatore, Cagni, aveva messo su l’aria di chi contro ogni evidenza ha fede. Mi ricordava Marina, non ancora disingannata riguardo alla storia con Raffaella. Girava voce che si stesse per acquistare un libero da una squadra tedesca per tamponare quel colabrodo della nostra difesa. O forse era più per tenere alte le speranze dei tifosi. Certo è che la psicologia cominciava ad avere un suo peso, come non mancava di far presente ogni settimana il programma. Nessuno si sognava di dire che eravamo una delle squadre più capaci della Serie A, ma se i ragazzi riuscivano a non perdere la bussola, non erano poi così incapaci da farsi sbaragliare senza battersi. Giorgio mi disse che a Natale andava una settimana a casa. Natale bisogna trascorrerlo con i figli, mi spiegò: Cesare e le sorelle. Raffaella l’avrebbe passato con il suo ragazzo. Benché innamoratissima di Giorgio, incontrava qualche difficoltà a mollare il fidanzato finché l’amante non le chiedeva apertamente di andare a vivere con lui. Forse, la fede di Marina non è così malriposta, pensai. Può darsi che anche Cagni abbia ragione. C’è ancora speranza. E in una mischia dopo un calcio d’angolo l’Udinese segnò.

Fu a quella partita che mi venne fatto di pensare a quanto dovesse essere problematica la psicologia della stagione per Orlandini, Zanini, Maniero? Ancora giovani e all’apice del vigore, dati in prestito al Verona da squadre piene di grossi nomi che non avevano spazio per loro, quelle tre stelle nascenti dovevano sentirsi frustrate dalla mediocrità dei compagni e al tempo stesso forti del fatto che al momento della débâcle loro se la sarebbero svignata in qualche altra squadra della Serie A. Proprio come in un matrimonio scricchiolante gli uomini si consolano pensando che a quarantacinque anni per loro sarà più facile ricominciare che per la moglie. O come le ragazze belle e intelligentissime sanno che da una storia focosa verranno fuori meglio loro che non l’amante attempato. Orlandini e Zanini giocavano bene a sprazzi, come se ci tenessero a ricordare le loro doti ai potenziali acquirenti. Ma come fai a mettercela tutta mentre ti prepari a tagliare la corda? Avevano ragione i giornali allora a chiedersi se qualcuno non si stava esprimendo al massimo? Nell’intervallo Giorgio mi spiegò che voleva vedere che effetto gli faceva la vita di casa, ma non aveva intenzione di fermarsi oltre le vacanze di Natale. Michele bofonchiò che l’arbitro era un venduto: non ci aveva concesso un rigore vistosissimo. Così stavamo per perdere ancora una partita, maledizione. Mi sentii in colpa per averlo indotto a tifare una squadra così inetta.

Ma non era ancora detta l’ultima parola: mancava il secondo tempo. Quasi in apertura un rapido contropiede di Orlandini, cross battuto alla perfezione, colpo di testa al volo di Zanini, gol! Che festa! Seguito a non più di due minuti dal secondo gol dell’Udinese. Ma com’era possibile che avessimo una difesa così scadente! Tutt’a un tratto gli spalti erano corsi da un crescendo di rancore e frustrazione. Odio per l’Udinese, i cui tifosi si erano portati appresso un tamburo che martellavano a tutto spiano, odio per la nostra squadra, che faceva veramente schifo, odio per noi stessi che la tifavamo, che sapevamo come avremmo continuato a tifarla anche dopo quella partita. Ma è anche per queste emozioni che paghi quando prenoti l’abbonamento, emozioni che ti consentono di essere più distaccato e accomodante durante la settimana, e magari di evitare anche qualche discussione con la moglie. Con una squadra così da odiare, dissi a Giorgio, come fai a non vedere Marina sotto una luce più positiva? Lui si accigliò. Maniero atterrato in area di rigore. Orlandini al dischetto. Gol.

Due a due. Era scesa la sera: accesero i riflettori. Forse con l’avvicinarsi del Natale la folla presentiva un miracolo. Perché il Verona – cosa rarissima – aveva cominciato ad attaccare. Si levò una di quelle imponenti ondate di speranza che servono, se non altro, a farti capire quanto c’è ancora di inspiegabile a questo mondo. Senza una ragione particolare, tutti avevano cominciato a gridare: “Su! Su!”, cioè: giocate in attacco, ma era come se incitassimo un cadavere a risorgere. Come sostituzione dell’ultimo minuto Cagni decise di far entrare il vecchio Toto De Vitis, e per una volta aveva visto giusto. Agli sgoccioli di un tempo di recupero di una lunghezza ormai sospetta, questa stella, o dovrei dire cometa cadente ci fece il regalo di Natale. Al limite dell’area di rigore simulò una finta perfetta su un cross basso. Il portiere, che già si tuffava verso di lui, nulla poté quando Maniero gli spuntò alle spalle pronto a insaccare la palla in rete. Tre a due. Non ho mai visto mio figlio così estasiato. Anche se disdegnava qualsiasi essere umano che non avesse almeno cominciato le medie, abbracciava il piccolo Cesare sollevandolo e lasciandolo ricadere di peso. E’ un ragazzone, Michele. Spenti i riflettori, i tifosi rimasero con gli accendini sollevati come tante candele in un coro natalizio. “Adesso suona il tamburo!” cantavano al ritmo di Guantanamera. I giocatori lanciarono le maglie sugli spalti, e uno anche i calzoncini. E io, rientrando a casa, provai una tale felicità alla vista dell’albero di Natale e dei miei figli e di mia moglie, e al pensiero che andava tutto bene, che quasi quasi mi misi a piangere.

Nel tentativo di salvare un rapporto, i consulenti matrimoniali insistono a dire che il primo passo è la comunicazione. Indurre le due parti a dirsi, onestamente, quello che provano. Non troppo convinto dell’effettiva saggezza di un simile comportamento, spesso ho osservato i gruppi rivali di tifosi offrire un’immagine trionfante di incomprensione goduta appieno. Noi urliamo a squarciagola: “Milan, Milan, vaffanculo!”. Ma non facciamo in tempo a cominciare che loro si mettono a fischiare, soffocando le nostre voci. O intonano cori simili. E così ogni tifoso sente solo quello che vuole sentire. Odia l’altra squadra e i suoi tifosi. Tutto quanto lo circonda conferma quell’odio. E non è molto diverso da quando uno ha da ridire sulla propria compagna col migliore amico, che si affretta ad approvare, per poi rincarare la dose con le sue di lagnanze sulla propria moglie. E, allo stadio, purché le due fazioni non perdano di vista la componente teatrale della cosa, purché come da protocollo siano mantenute a debita distanza, questo dà un piacere enorme, benché infantile, di gran lunga superiore a certe discussioni intelligenti sulla partita con un tifoso avversario, che magari inducono ad ammettere a denti stretti che in realtà la sua squadra è infinitamente superiore alla tua. Ma anche se sarebbe riduttivo dire che il calcio non conta niente, è chiaro che certe cose contano di più. E in certi settori della vita ammetterlo, sia pure a denti stretti, è opportuno. Così Marina aveva approfittato del Natale per dire a Giorgio che si rendeva conto di essere in buona parte responsabile per le cose che erano andate storte nel loro matrimonio e che voleva tanto rimediare, voleva tanto amarlo in un modo migliore, tornare a quelli che, ne era convinta, erano stati anni felici per tutti e due. Ricordati di questo, Giorgio, diceva. Ricordati di quest’altro. Tanta generosità spiazzò il mio amico. E lo spaventò, credo. Per tutta risposta non si ripresentò a casa per quasi un mese.

Un mese decisamente lugubre! Rincuorati dalla vittoria contro l’Udinese seguimmo per la prima volta la squadra in trasferta contro l’Atalanta. Sul pullman i tifosi cantavano: “Autogrill, Autogrill, Autogrill!” al ritmo normalmente usato per invocare il nome del giocatore prediletto. Quando ci fermammo – per quanto il viaggo da Verona a Bergamo non richieda più di un’ora e mezzo – i tifosi presero d’assalto il bar e lanciarono palle di neve alle macchine della polizia che ci scortavano. Il Verona giocò una partita tutta in difesa, come se valesse ancora la pena pareggiare a quel punto della stagione, mentre un paio di hooligan cercavano di scalare l’enorme staccionata che ci avevano messo davanti per lanciare fuochi d’artificio ai bergamaschi danarosi nelle loro belle poltrone. La polizia non si lasciò sfuggire l’occasione di usare il manganello. La temperatura era sotto zero. E naturalmente, a meno di cinque minuti dal fischio finale, l’Atalanta segnò su un tiro deviato. Eravamo tutti schifati. “Questo ti aiuta a crescere” dissi a mio figlio, arrabattandomi in cerca di compensazioni. “Nella vita è importante abituarsi a perdere. E’ importante imparare a tener duro comunque. Nella buona e nella cattiva sorte”. Giorgio grugnì. Mi sembrava quasi di sentire Kipling. Cesare non era voluto venire. Se non avevano silurato quell’incapace di allenatore che era il nostro Cagni, ci raccontò un tifoso ben informato prima della partita con il Milan, era solo perché avrebbero dovuto onorare il contratto fino alla fine della stagione. Oltre a quello di chiunque lo avesse sostituito. E il Verona non disponeva di certe cifre. Anche Giorgio si vedeva costretto a calcolare quanto costava onorare un vecchio contratto. Sia lui sia Marina si erano rivolti agli avvocati. Offerte e contro offerte. Lei, che aveva mollato un buon lavoro con una ditta farmaceutica per stare a casa con i figli, voleva tre milioni al mese. Mi ritroverò sul lastrico, disse Giorgio. I soldi, riflettemmo lugubremente, finiscono per condizionare tutto nella vita. Guardavamo la formazione del Milan scorrere sullo schermo: Maldini, Albertini, Baresi, Boban, Savicevic, Baggio. Perfino i giocatori che avevano in panchina valevano più del doppio di tutto il Verona messo assieme. E non appena le cose avevano cominciato a girare male, loro avevano cambiato allenatore. Era tornato il grande Sacchi. Che speranze aveva il Verona?

Gli spalti erano gremiti, ma questa volta la folla non dava un senso di sicurezza. Perché in Italia la cosa irritante, a fare il tifo per una squadra di provincia, è che lo stadio è veramente pieno solo quando viene una delle tre grandi: Juventus, Inter, Milan. E non è che si riempie dei tifosi di queste grandi città, che pure ci sono, né di persone del posto propense a pagare per veder giocare come Cristo comanda, che pure ci sono. Macché, lo stadio si riempie di gente del posto che di fatto tifa per una delle tre grandi, veronesi purosangue che sventolano bandiere della Juventus, sfoggiano sciarpe dell’Inter, indossano maglie del Milan. Certa gente, bellamente priva di senso del pathos, tifa solo per le squadre di successo, soprattutto in televisione naturalmente, proprio come alcuni uomini hanno occhi solo per le donne più belle e avvenenti. E alla prima occasione, si buttano a pesce. Solo che farlo nel cortile di casa, per così dire, non è esattamente indice di buon gusto. “Sappiamo i nomi!” urlavano gli irriducibili della Curva Sud. “Abbiamo gli indirizzi”. “Vergogna!” gridava Giorgio, veronese fino al midollo.

Comunque era solo questione di tempo, avvisai Michele. Come fa una semplice bestia da soma disorientata come il Verona a tener testa a tanto sfoggio? Michele annuì stoicamente. “Goditi semplicemente il piacere dello spettacolo” rincarai, sicuramente molto più nervoso di lui. E il gioco del Milan era di una bellezza, di una sinuosità indiscutibili. Tutti quegli schemi studiati, i colpi di tacco, le finte. Due, tre, quattro tiri in porta. Era solo questione di tempo. Finché di punto in bianco, dopo l’ennesimo angolo per loro, Orlandini scappa in contropiede. Dribbla Baggio. Si apre uno spazio enorme. Cross a Zanini. Gol. Il Milan era sorpreso, ma tutt’altro che preoccupato. Riprese il gioco con lo stesso susseguirsi di sofisticate azioni di attacco. Una decina di occasioni mancate. E poi un altro varco. Ressa davanti alla porta milanista. Gol! Due a zero. E, nel caso ancora non ci sembrasse vero, il Verona segnò di nuovo. Orlandini. Il nostro terzo e ultimo tiro della partita. In Italia Hellas, in Europa Hellas! Un delirio. Mentre i veronesi milanisti uscivano delusi prima dello scadere, la Curva Sud si levava come un solo uomo, o meglio, come una moglie fedele e trionfante, che agita con gesto liberatorio il pugno davanti alla prostituzione sconfitta.

“Peccato che non c’era Cesare” dissi dopo. “Come mai?”. E Giorgio, che da un po’ non parlava della sua situazione, spiegò che non era più credibile raccontare ai figli che lavorava a Firenze e poteva tornare a casa solo la domenica. Perciò la nuova versione era che doveva stare a Roma un mese. Anche se c’erano di mezzo gli avvocati, i figli a quanto pare non erano ancora stati messi al corrente della rottura. “E non hai chiesto a Raffaella di trasferirsi da te?”. “No”. “Si può sapere che intenzioni hai?”. Giorgio disse che finché non riusciva a prendere una decisione si sentiva paralizzato. “Se non ne prendi una in fretta, qualcuno lo farà per te”. Com’è facile dare consigli! Disse che lo sapeva, ma serviva a poco. Ci separammo con un abbraccio e io mi vergognai un po’ di aver tifato contro di lui. L’importante era risolvere la situazione, dissi. Se il Verona poteva battere il Milan, c’era sempre speranza. “Magari andrà ai rigori” disse.

La particolarità del “cavaliere della fede”, come viene descritto da Kierkegaard in Timore e tremore, è che, al pari del “cavaliere della rassegnazione infinita”, ha compiuto il gesto spirituale di accettare che i suoi desideri non si realizzino, il gesto di rinuncia, ma a differenza di quello fa un passo oltre. Continua a credere, paradossalmente, che avrà ciò che non può avere: l’immortalità è impossibile, eppure sarà mia. Ed è questo paradosso, sostiene Kierkegaard, a condannare chi ha davvero fede al “martirio dell’incomprensione”. Certo diventava difficile capire Marina quando parlava, ormai con una buona dose di serenità e praticità, degli accordi per la separazione e al tempo stesso spiegava di essere convinta che Giorgio sarebbe tornato da lei. Certo Cagni sembrava a dir poco incoerente quando, in un’intervista alla TV locale, dichiarò con una faccia tosta imperdonabile di sapere benissimo che eravamo candidati alla retrocessione, cosa alla quale lui, nell’eventualità, si era rassegnato, al tempo stesso però era fermamente convinto che non sarebbe successo. Avremmo vinto le ultime partite restando in Serie A. Sarebbe già una cosa nobile, pensai, se io e Michele riuscissimo a fare i “cavalieri della rassegnazione infinita”. “Non ci sperare” gli dissi, prima della partita decisiva con la Juventus. Avevo ragione. Perdemmo due a zero.

Ma a un certo punto le analogie si devono pure interrompere. La mente tesse la sua ragnatela sul mondo, in cerca di affinità, congiungendo le cose simili, insistendo, afferrando, immaginando di aver capito. Ma se l’analogia non finisse, se due cose fossero uguali sotto ogni aspetto, si annullerebbero a vicenda, e in un certo senso cesserebbero di esistere. Ci resterebbe solo quella ragnatela mentale e niente da catturare. “E’ offensivo,” disse mia moglie una sera “come continui a paragonare i problemi di Marina e Giorgio alla stagione calcistica. E’ ridicolo” si lamentò. E aveva ragione. Perché in realtà alla fin fine non mi importava un accidenti se il Verona andava in Serie B. O in Serie C, se è per questo. Alla fin fine non me poteva fregare di meno se batteva il Milan o perdeva dieci a zero con la modesta Reggiana. Se vinceva la Coppa dei Campioni o faceva bancarotta chiudendo per sempre i battenti. Non me ne importava niente. Mentre se Giorgio sceglieva di lasciare la famiglia per sempre, questo avrebbe significato un vero cataclisma nella vita di cinque persone, poco ma sicuro. Gli spalti gremiti e le bandiere che sventolano e i giocatori che rincorrono colori vivaci su un verde abbacinante saranno anche eccitanti, non lo nego, anzi, ma lo stadio non è che un piccolo posto in una grande città, nell’ancor più grande universo della mente, un teatrino dove piaceri meravigliosamente infantili possono essere rimessi in scena all’infinito. Mentre un soggiorno è immenso. Un bambino è smisurato. E la camera da letto è un universo. “Se lo faccio,” le dissi ” è perché solo così mi lasci parlare di calcio”.

Fu così che, nel momento più cupo della stagione – retrocessione matematica – Giorgio tornò a casa. Tutt’altro che sconfitto, anzi, dicendo: E’ questo che voglio, il mio matrimonio, questo scelgo. Diciamo pure vittorioso. Come emerso da un’ombra. Da una malia. L’incantesimo di Raffaella. O della mia analogia. “Come ho potuto immaginare che non amavo mia moglie?” disse. “Come ho potuto pensare di vivere lontano dai miei tre bellissimi figli?”. E, seduti tra una folla decimata e depressa ad assistere alla messa in scena degli ultimi riti contro il Parma, il sipario calato sul nostro amorazzo con la Serie A, Giorgio disse: “Be’, grazie a Dio io non sto colando a picco”. E poi: “Niente di più facile che scaricare la povera ragazza quand’è stato il momento”. “Cominciavo a prenderci gusto” mi lamentai. Quella sera, quando mia moglie si decise a riattaccare il telefono con una loquacissima Marina, dissi mestamente: “E hanno pure rinnovato il contratto a Cagni. Ti sembra possibile? Ma com’è che non finisce mai niente?”. “Beviamo al matrimonio” disse lei, e aggiunse ridendo: “Per un’altra stagione”. La settimana dopo andai allo stadio con Michele a prenotare l’abbonamento per l’anno successivo.

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