Una domenica pomeriggio dell’ottobre 1996, il Verona perse in casa la prima partita della stagione, due a zero contro il Bologna, e in quello stesso giorno Giorgio mi disse che il suo matrimonio era naufragato. Ci trovavamo nella Curva Sud, dove si danno convegno i tifosi più scalmanati, e c’era grande eccitazione per quell’incontro, il primo del nostro ritorno in Serie A. C’erano bandiere e fuochi d’artificio, grande ottimismo e cori di incitamento: seguiti da cocente delusione. Di solito una partita di calcio, come un matrimonio, si può vedere in almeno due modi. Ma non questa. Al Verona mancava sia la forma fisica che lo spessore tecnico. Non mi ricordo un solo tiro in porta. Il Bologna, bontà sua, si limitò a segnare due volte. Dopo, avviandoci mogi mogi verso l’uscita, Giorgio mi confidò che stava prendendo un appartamento per conto suo. Non aveva mai amato la moglie, disse. Mio figlio, un ragazzone di dodici anni, scalciava le gradinate con le lacrime agli occhi. Il ragazzo di Giorgio, più piccolo di tre anni, sfoderava un sorrisetto stoico. Gli otto mesi successivi ci avrebbero visti uniti dal vincolo dell’abbonamento stagionale.
Due sembrano essere i procedimenti della memoria, incostante per definizione: l’impressione generale, che è un sedimento incontrollabile, e l’episodio: replay audio o video; fra i due procedimenti c’è ben poca interazione. Così, la partita successiva col Cagliari fu una noia mortale, ma gli episodi che ricordo sono positivi: il gol dell’uno a uno, su deviazione fortunatissima; poi il pareggio definitivo, e questa volta pure meritato: un cross alto seguito da un tiro al volo, basso, teso, imprendibile. A sentire i consulenti matrimoniali, un’esperienza negativa ne cancella almeno quattro positive, senza lasciare traccia di sedimenti piacevoli. Di sicuro Giorgio a quel punto non aveva più nemmeno l’ombra di un ricordo felice legato ai suoi vent’anni di matrimonio. Ma io speravo che un punto strappato al Cagliari – il primo dopo tre sconfitte consecutive, una in casa e due in trasferta – potesse rovesciare le sorti. Secondo mio figlio Michele avremmo meritato di più. Il verdetto del piccolo Cesare fu che era un risultato equo. E il padre lo riaccompagnò a casa. Ingegnere di professione, gli era facile raccontare ai tre figli, Cesare e le due ragazze più grandi, che per un po’ di tempo doveva lavorare a Firenze.
Mi preme stabilire una differenza tra fedeltà e fede, nel calcio e in amore. Sono finito a Verona per puro caso: una ragazza italiana che mi aveva scovato a una festa a Boston aveva un fratello che studiava medicina qui e, quando ci sposammo, ci mise a disposizione il suo appartamento per una settimana. Così i gialloblu sono diventati la mia squadra. E anche se certe volte uno vorrebbe tenere per il Milan, la Juventus, l’Inter, squadre in grado di regalarti uno scudetto o di fare nero il Bayern di Monaco, non per questo si è infedeli. Non vuoi un’altra squadra, vuoi che vinca la tua. “In Italia Hellas” cantiamo – ufficialmente il club si chiama Hellas Verona – “in Europa Hellas”. E il canto si chiude su “e ovunque Hellas è sempre gialloblu”. Che fedeltà! Ma senza fede, perché nessuno di noi crede nemmeno lontanamente che andremo di nuovo in Europa, figurarsi altrove.
Il punto, stando a Giorgio, era che lui in realtà sua moglie non l’aveva scelta. Era capitato tutto per caso quando erano giovanissimi. Perciò era più che logico che ora si fosse invaghito di un’altra: banalmente, la centralinista. Ma non l’aveva invitata a trasferirsi da lui nell’appartamento appena preso in affitto. Raffaella, di diciotto anni più giovane, viveva con i suoi, che ne avrebbero fatto una malattia. E c’era pure un fidanzato, ancora da scaricare. E l’avrebbe senz’altro fatto, disse lei, una volta che Giorgio avesse detto chiaro e tondo quello che voleva. Giorgio passava le serate a passeggiare nel freddo della periferia discutendo al cellulare con la ragazza e con la moglie. “Non farne parola con i bambini finché non ho deciso” diceva.
Uno dei piaceri perversi del calcio sta nella disparità che tanto spesso si viene a creare fra meriti e risultati. Così, malgrado qualche miglioramento nel gioco, il pareggio col Cagliari si rivelò un fuoco di paglia. A metà novembre giocammo in modo impeccabile contro l’Inter, ma solo per vederli andare in vantaggio all’ultimo minuto, e a dispetto dell’andamento generale del gioco, grazie a una splendida azione individuale di Javier Zanetti. Nel secondo tempo mi vidi costretto a rimproverare mio figlio che si era unito ai cori razzisti contro i tre giocatori neri dell’Inter. Giorgio era disgustato. “Non ce lo meritavamo” fece. Io non gli raccontai che la moglie aveva usato quasi le stesse parole, con la stessa identica intonazione, per spiegarmi come la faceva sentire il suo abbandono.
Dopo varie telefonate a mia moglie, Marina venne a trovarci. Alta e slanciata, di genitori americani ma cresciuta a Napoli, era agghindata di tutto punto, e anche se ostentava un’allegria cinica, era sempre sul punto di mettersi a piangere. Voleva capire, disse. Perché se Giorgio aveva un’altra gliel’avrebbe detto. Aveva giurato che non c’era nessun’altra. Io balbettai imbarazzato che gli uomini alla nostra età attraversano un periodo difficile. A quanto pare Giorgio tornava a casa un paio di giorni, piangeva, poi se ne riandava. E ogni volta per periodi più lunghi. Lei sentiva di non meritarselo. Troppo alto lo scotto da pagare per aver fatto dei figli, che l’avevano resa meno attraente. Ma aveva fede, disse. Non riusciva a credere che lui non sarebbe tornato. Era un brav’uomo. Lei lo sapeva. Ai miei occhi tutto era fuorché poco attraente, anzi, la trovavo una gran bella donna. Pare che certe volte lasciasse i figli da soli per stare fuori fino alle due o alle tre di notte.
Quando, saltellando fra i canali televisivi, capita di imbattersi in una partita di calcio, è difficilissimo non fermarsi a guardarla, e ancora più difficile non schierarsi. E lo stesso vale quando le coppie che conosci trasformano la loro vita in una guerra. Guardando la TV, siccome la tua squadra appare raramente (almeno se tifi il Verona), quasi sempre ti trovi a tifare contro una squadra anziché per la tua. Vuoi vederne patire una, di solito la più forte e famosa, anziché godere l’altra. E così all’improvviso scoprii che, anche se Giorgio era un amico di lunga data con cui avevo giocato in una squadra di calcetto per anni e anni, anche se spesso avevo accompagnato le sue lagnanze sulla moglie con dei cenni di assenso e di simpatia, anche se, soprattutto, andavamo a vedere il Verona insieme, cioè a soffrire insieme, nel corso di una stagione penosa, nonostante tutto in qualche modo tifavo contro di lui. Ero forse geloso? Che avesse una donna giovane? Gli auguravo la punizione che gli spettava? Come al Vicenza, squadra di una provincia vicina, che nella classifica era molto più in alto di quanto meritasse. C’era di che preoccuparsi.
La prima vittoria arrivò contro la Roma. Dopo la sconfitta in trasferta della settimana precedente contro la Reggiana (“la modesta Reggiana” l’avrebbe definita un cronista sportivo inglese) sui giornali si era polemizzato riguardo a certi giocatori che non ce la mettevano tutta, che non onoravano le maglie gialloblu. Io lo trovavo ingiusto. Perché non avrebbero dovuto mettercela tutta? “La fortuna nella vita,” dice Kierkegaard “consiste nell nella coincidenza di desiderio e dovere”. E di sicuro questo è quasi sempre vero per un calciatore. Perché mai non dovrebbe desiderare di vincere? Che poi è il suo dovere. Anche i desideri di Marina sembravano coincidere con il suo dovere: amare il marito e i figli. “Il compito della maggior parte degli uomini,” nota Kierkegaard “consiste precisamente nel inchinarsi al dovere e nel trasformarlo, per entusiasmo, nel desiderio”. In questo senso la moglie di Giorgio, come gli indignati giocatori del Verona intervistati dal foglio locale, poteva sostenere che, per quanto le cose andassero male, lei non aveva niente da rimproverarsi.